Bruno Pizzul un amico della bici. Gli piaceva certo il ciclismo e nella sua lunga carriera di telecronista lo aveva commentato – senza infamia e senza lode ci scherzava su – ma in bici si muoveva ogni giorno per Milano, un po’ perché non aveva mai preso la patente e un po’ perché, puntuale e rigoroso com’era, non voleva mai arrivare in ritardo e pedalando sapeva esattamente quando partire e quando arrivare. A BC, qualche anno fa, in una divertente e acuta intervista di Marco Pastonesi – uno che la bici ha sempre raccontato cercando storie e personaggi lontani dal ciclismo dei campioni – aveva parlato del suo lungo sodalizio con le due ruote tra aneddoti e riflessioni serie condite da quella ironia leggera e speciale che lo ha sempre contraddistinto. Ve la riproponiamo tutta intera, in ricordo di un grande uomo di sport e di un convinto ciclista quotidiano.


di Marco Pastonesi
Pìzzul, in friulano, significa piccolo. Mai cognome è stato così poco azzeccato. Perché Bruno Pizzul è grande e grosso in carne e ossa, gigantesco e addirittura ciclopico al microfono. Calcio, ma non solo. Rai, il primo Mondiale a Messico 1970, l’ultimo a Corea 2002, poi ancora e poi sempre, su Rai News 24 e su Radio Monte Carlo, nelle scuole e nelle università. Una voce a due ruote: perché Pizzul è ciclista convinto, fedele e praticante.
Bruno, la prima bicicletta?
«La prima, personale, di proprietà, vanta una genesi strana. Figlio unico di mamma apprensiva e di papà imperturbabile, crescevo fra due poli opposti. La mamma pensava che il principale obiettivo fosse la scuola, si preoccupava che mi vestissi bene e si raccomandava che non sudassi. Il papà mi rassicurava: ‘Non preoccuparti – mi ripeteva – i guai peggiori li hanno sempre fatti quelli che studiavano’. E mi prometteva: ‘Alla prima insufficienza, ti regalo una bici’. Pensavamo che scherzasse».
Invece?
«In seconda media presi un 5 a un compito di matematica. Mia mamma mi dette del lazzarone e attribuì la colpa alla mia passione per il pallone. Invece mio papà, l’indomani mattina, mi fece trovare, accanto al letto, una Torpado, da passeggio, gialla. Da quel giorno è cominciato il mio rapporto privilegiato con la bicicletta, come unico mezzo per muovermi, oltre a quelli pubblici. Tant’è vero che non ho mai preso la patente».
Perché?
«Nessun eroismo. La verità è che ne ho sempre potuto fare tranquillamente a meno. A 18 anni giocavo a calcio nel Catania, e non avevo bisogno dell’auto. Poi venni ceduto in prestito all’Ischia, e lì sull’isola l’auto ha poco senso. Quindi ho sempre trovato qualcuno con cui, eventualmente, dividere il viaggio in auto: prima un collega della Rai, e fra questi Mario Poltronieri, cui venivano affidate auto da provare e che lui metteva a dura prova, poi mia moglie. Infine, un po’ per pigrizia e un po’ per non dover o voler sostenere un esame, ho rinunciato alla patente. E questa mancanza la esibisco come un fiore all’occhiello».
Però…


«Per girare in città, che per me è Milano, la bici è quanto di più semplice e rapido si possa immaginare. È vero che l’uso della bici in città denota un certo sprezzo del pericolo, ma è anche vero che la mia velocità da crociera, pari a quella dei pedoni, mi permette di essere accettato sui marciapiedi».
Con la bici si guadagna in salute.
«Dipende da dove si pedala. Da questo punto di vista, Milano non è il luogo più indicato. A chi mi fa notare il mio alto consumo quotidiano di sigarette, ribatto sostenendo che i miei due pacchetti equivalgono a cure di aerosol rispetto ai veleni del traffico. Di certo, con la bici si risparmia tempo. E si può calcolare, quasi sempre esattamente, il tempo che s’impiega per spostarsi, tanto che alla fine si è molto più puntuali in bici che non in macchina o anche con metropolitana o tram. E un palo cui legare la bici si trova sempre. Poi il palo lo ritrovi, la bici forse no».
“Un palo cui legare la bici si trova sempre. Poi il palo lo ritrovi, la bici forse no”
La bici è una soluzione, una risposta, una politica.
«Milano è adattissima all’uso della bici. E dove non si possono costruire piste ciclabili, basterebbe una corsia ciclabile, tracciando una riga per delimitare lo spazio riservato alle bici e proteggere i ciclisti. E poi sono indispensabili educazione, rispetto, cultura».
Pizzul, quante bici ha avuto?
«Un’enciclopedia. Quelle di nobile caratura, alcune regalate, sono le più pericolose: perché le rubano. Bianchi, Pinarello, Colnago… Marino Basso, campione del mondo professionisti su strada nel 1972 e poi manager di una squadra, me ne promise una da corsa, cui chiesi di mettere però un manubrio da passeggio. Finalmente mi venne consegnata una bici, ma senza scritte. Un giorno, a Milano, a un semaforo di corso Sempione, un automobilista suonò il clacson per salutarmi. Mi fermai: era Dino Zandegù, storico avversario di Basso nelle volate. Ci salutammo e colsi l’occasione per dirgli: ‘Parli sempre male di Basso, e invece guarda che regalo mi ha fatto’. Zandegù scese dall’auto, osservò la bicicletta, poi sentenziò: ‘Questa bici è mia’. E mi spiegò che era in ritiro con la sua squadra, la Malvor-Bottecchia, sul Lago di Garda, quando una notte gli rubarono tutte le bici. E, secondo lui, era una di quelle, ridipinta e modificata».
Le altre bici?
«Molte, avendo undici nipoti, tutti biciclettari – li ho educati andando a prenderli, in bici, fuori dagli asili e dalle elementari -, le ho riciclate e regalate. Due o tre le tengo in Friuli, dove la bici viene usata più come mezzo di locomozione che di agonismo. Di una bici vado particolarmente orgoglioso. Si tratta di un omaggio concessomi qualche anno fa, durante un incontro a Bologna sul traffico sostenibile: una bici personalizzata, ma il mio nome – per timidezza – l’ho cancellato, assemblata con componenti di varie fabbriche italiane e battezzata ‘Pensieri e pedali’».
“Ho undici nipoti, tutti biciclettari. li ho educati andando a prenderli, in bici, fuori dagli asili”
Così lei s’intende più di bici che di motori?
«Se si riferisce a funzionamento e manutenzione, sì. So che cosa bisogna fare quando si fora una gomma: estrarre la camera d’aria dal copertone, immergerla in un secchio d’acqua per individuare il foro, quindi asciugare, spalmare il mastice, aspettare, infine attaccare la pecetta… Una cerimonia, un rito, una liturgia, in cui però ho sempre bisogno di almeno un assistente».
E per lavoro?
«Mi è capitato di occuparmi sia di ciclismo sia di Formula 1. Di ciclismo, sostituendo Adriano Dezan quando andava, raramente, in ferie. Ricordo un Trittico Lombardo, con Tre Valli Varesine, Coppa Agostoni e Coppa Bernocchi. Ma Adriano era gelosissimo del suo mondo, finché mi liquidò: ‘E’ meglio che tu torni al calcio’. Collaboravamo durante l’Olimpiade di Los Angeles: Dezan faceva la cronaca, io il commento. Non so se per troppo amore o ansia, se la corsa partiva alle 9, lui pretendeva di essere lì già alle 5 e mezzo».
E la Formula 1?
«Era un periodo in cui la Rai cercava di essere oculata nel limitare le spese delle trasferte. Così, in occasione del sorteggio dei Mondiali di calcio in Argentina, venni inviato a coprire il Gran premio di Argentina. Per la tv c’era Mario Poltronieri, per la radio la cronaca era affidata a Enrico Ameri, il supporto tecnico – figurarsi – a me. E quel figlio di buona donna di Ameri, per mettermi in crisi, mi chiedeva: ‘Bruno, come mai c’è quel fumo?’. Io, che ignoravo, sparavo».
Pizzul, dica la verità:mai preso multe in bicicletta?
«Una volta, da ragazzo, su quella Torpado. Con un amico tornavo da un bagno nel fiume. Io seduto sul sellino, pedalando, lui sulla stanga. Un vigile fischiò, ci fermò, ci contestò l’infrazione, ed elevò una contravvenzione. Ma successe un mezzo scandalo. E alla fine quella multa non fu mai pagata».
Lei abita a due passi dal Vigorelli.
«I primi anni in cui mi recavo all’estero, dal 1970, per Mondiali e Olimpiadi, sapendo che abitavo a Milano, mi chiedevano del Duomo e della Scala, e poi del Vigorelli. Era da tutti conosciuto come il tempio delle grandi sfide nella velocità e nell’inseguimento. Da troppi anni la sua destinazione pare ballerina».
Che cosa le piace di più dell’andare in bici?
«Il senso del percorso. In macchina si parte e si arriva, contano solo i due luoghi da congiungere. In bici conta tutto quello che c’è tra la partenza e l’arrivo, il durante. E come succede soltanto quando si va a piedi, in bici avverti, perfino in città, il senso del cambiamento delle stagioni. Alberi, foglie, fiori, colori. È il bello dell’andare piano».
C’è un’impresa in bici di cui va fiero?
«Non ho mai fatto dell’agonismo, anzi, così alto, e facendo così fatica a piegarmi, non ho mai avuto un manubrio da corsa. Ma ricordo con piacere gli Europei di calcio 2000 in Olanda, quando lavoravo in coppia con Eraldo Pecci. Siccome lui aveva paura dell’aereo e viaggiava solo in macchina, arrivò là due o tre giorni prima di me e, d’accordo, noleggiò una bici per sé e ne prenotò una per me. Ci divertimmo e ci sentimmo anche importanti, perché là la bici è la regina della strada. Al momento del pagamento, a me fu richiesta una cifra superiore a quella di Pecci. ‘Ma come – protestai – io l’ho usata meno di lui’. ‘Sì, ma tu sei più grande e grosso di me – mi spiegò Pecci – e l’hai rovinata di più’».
E c’è un viaggio in bici che sogna?
«Il Danubio, da Donaueschingen, dove nasce per la confluenza di due fiumi, fino a Passau, o a Vienna, o a Bratislava, o a Praga, insomma finché si può. E poi la Norvegia: alla periferia settentrionale di Goteborg vidi un cartello che indicava Capo Nord, e ne rimasi affascinato, ma non abbastanza per cimentarmi».