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Il Prof. d’America

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© Paola Formica BC

«Le bici della mia prima gioventù sembravano giocattoli con il manubrio alto…»

Il professor Dario Del Puppo ha il fisico scarno di un ciclista. Di un uomo che ha come estensione fisica la due ruote. Non è di quelli che in Italia consideriamo «ciclisti della domenica». «A differenza di molti miei vicini, mia moglie ed io possediamo una sola macchina. Viaggio quasi sempre in bici. Comporta, mi domandano, qualche sacrificio? Lavoro a sette chilometri da casa ed è perfettamente ciclabile».

Siamo ad Hartford. Città sulle rive del fiume Connecticut. Tra Boston e New York. Città famosa per essere la capitale delle assicurazioni.

Questo professore italo-americano dal pittoresco viso, sembra uscito da uno dei racconti di Mark Twain, che qui visse per lungo tempo e che «poverino provò a guidare una penny-farthing, la bici dalla ruota anteriore grandissima, con esito fallimentare!». Sorridiamo entrambi. Poi riprende.

«Ti racconto una storia»

E come pellicola di un vecchio film, inizia. «Hartford. 1895. Albert Augusto Pope, veterano della Guerra Civile, imprenditore di Boston, ed esperto uomo d’affari, intuisce le potenzialità del ciclismo. Ma lo zenit commerciale della due ruote negli States, con centinaia di biciclette Columbia sfornate su base giornaliera, al Pope Manufacturing Co. di Hartford, coincide con il nadir. Ma Pope continua ad avere fiuto: ripone le sue speranze e le strategie commerciali in una macchina elettrica. Compra il brevetto di George Selden per il motore a benzina. Ma la macchina elettrica di Pope non decolla per diversi motivi. Cede una parte dei suoi diritti ad una azienda automobilistica alle prime armi, con l’idea che lui può mantenerne profitti e royalties. Henry Ford, come tutti sappiamo, alla fine riuscirà a raggiungere gli obiettivi che Pope aveva anticipato».

E se qui termina la storia della due ruote a Hartford, non così succede con Del Puppo. Tutti dimenticano. Ma lui no, non ci sta. «Per un breve momento, Hartford è stata la capitale sia della bicicletta che dell’automobile». Poi accenna un sorriso, sguardo fisso nel vuoto, prosegue

«Avremmo potuto guidare auto elettriche già nel 1900 e solo Dio sa ciò che avremmo avuto oggi».

«Ma le intuizioni brillanti di Pope, andavano oltre la produzione – prosegue il professore – aveva previsto che per vendere più biciclette bisognava migliorare la viabilità. Le strade, sterrate allora, prevedevano solo l’uso di carri con cavalli. La ‘roadification’ degli States era per Pope elemento principe per la promozione della due ruote. The Good Roads Movement, l’organizzazione che Pope fondò allo scopo di promuovere una maggiore partecipazione del governo nella costruzione delle strade d’America, continuò a sostenere la possibilità di ottenere strade asfaltate anche dopo l’abbandono della produzione di bici e auto». Se questa storia sembra fermarsi agli inizi del ‘900, quella dell’italo-americano su due ruote prosegue in questa giungla d’asfalto. Con un’interessante, rivoluzionaria idea. “Cycling, Sustainability, and the City of Hartford”, è il corso che da settembre ha preso il volo al Trinity College di Hartford, dove Del Puppo insegna «Language and Culture Studies». «L’idea, mia e di un collega, diventata finalmente progetto, nasce dalla passione non solo per la bicicletta ma anche per l’ambiente. Studieremo il ciclismo -urbano e come mezzo di trasporto – la sostenibilità (promossa dalla bici), la storia e la cultura di Hartford. Bisogna sensibilizzare gli studenti, portarli a comprendere il senso delle cose, il perché delle scelte politiche e sociali nel corso del tempo».

Vorrei provare a fermarlo. Ma non si può. È una bici lungo una discesa, incurante perfino del pavé. «La sfida è quella di cercare di capire come rendere la città e tutte le città più vivibili. E la bici, si sa, per la sua praticità, ma soprattutto per il senso di autonomia creativa che ispira, è mezzo fondamentale per questa trasformazione. Inoltre la gente è più felice quando ha la possibilità di sviluppare e di esprimere la propria creatività. Oltre a studiare questi argomenti, ogni studente farà uno stage presso un’azienda pubblica o privata nella zona che promuove la sostenibilità. E insieme si girerà in bici per scoprire o ri-scoprire la città, per sentirla vicina e per vederne quegli aspetti che in macchina non si coglierebbero».

La primavera in Italia sta già dando i suoi frutti. Qui, nonostante il cielo azzurro, il freddo è ancora tagliente, ma questo non impedisce di salire in sella e correre a ritrovare qualche pezzo di città che troppi occhi dimentichi, non riconoscono più. Saliamo sul Constitution Plaza. Siamo nel centro di Hartford.

Primo consistente progetto di riqualificazione urbana, Constitution Plaza, sorge dove negli anni ’50 vi era un quartiere nostalgicamente noto per la sua grande popolazione italo-americana. «I miei sono originari di un paesino veneto, Bibbiano. Ma sono nato e cresciuto qui, anche se, sento forte l’italianità e tutto quello che vi è dietro». È bastato poco, uno sguardo in lontananza, il ricordo delle origini e ritorna alla mente la prima bici.

«Ho imparato ad andarci in città, attorniato da macchine».

E così, come l’inizio di Tom Saywer, immagino una voce che urla il suo nome, ma mentre lì, il protagonista viene afferrato per «un lembo della giacchetta», vedo davanti a me Dario scappare in bicicletta.

«Allora, la bici era roba da bambini. Non vedevi mai, a differenza dell’Italia di allora, adulti che l’usavano come mezzo di trasporto, solo qualche poveraccio che aveva perso la patente di guida o magari qualche teenager innamorato che non aveva ancora la patente». Sorride il prof, di un sorriso malinconico. Pieno di ricordi. E così, senza rendersene conto, forse partendo da pensieri a metà, riprende, «bici con il manubrio alto, ruote più piccole, con diversi fronzoli e accessori eccessivi che la facevano somigliare addirittura ad una macchina, piuttosto che ad una moto. Poi arrivarono le bmx ma ero già troppo grande. Periodo stupido e strano per la storia della bicicletta americana, come se ad un tratto il paese si fosse dimenticato il suo passato». Il Signor Ford soppianta cavallo e bicicletta «e siamo diventati schiavi della macchina. Il resto, come dicono gli americani, è storia». Progresso e tecnologia non sono sinonimo di felicità e vita qualitativamente migliore. Ma si è parte di questa modernità e, volente o nolente, devi accettarla senza mai piegarti ad essa. «A casa non possediamo una macchina fotografica né un telefonino ultima generazione, quello che abbiamo non fa nemmeno foto…». Non proferisco parola. Per un attimo penso alle corse ciclistiche di una volta, in cui si raccontava lasciando al lettore la fantasia di immaginare uno scatto, una caduta, una volata. Parole senza immagini. Se non quelle della fantasia e dei ricordi.

«La seconda bici, quella che mi ha accompagnato per diversi anni era da corsa, francese, a dieci marce. Dal curioso nome Unicsport che a pronunciarlo suona “Eunuch Sport”- sorride il prof – “eunuco”! Erano gli anni della crisi petrolifera, crisi d’eccesso semmai, l’America scopre le auto giapponesi. E riscopre la bicicletta come trasporto locale. Io intanto ero partito per l’Italia per studio e lavoro».

Fine anni ’70, metà degli ’80, ciclisticamente fondamentali per il professore. A Firenze dove studiava, frequentava un gruppo sportivo. Ma la bici lo portava ovunque. «Girare Firenze liberamente, speditamente, seguendo le mie coordinate e linee del desiderio significava costruire fenomenologicamente la mia città. Vi era la Firenze delle cartine, con chiese, musei, monumenti. E quella della mia due ruote.» Se la bici è ormai per molti moda, o un modo per fare filosofia spicciola, qui in questa parte d’America c’è un italo-americano che spende il suo tempo senza voler attirare su di sé alcuna attenzione. Parla di libertà e di spazi, di due elementi fondamentali per l’uomo. Il suo elogio della bici è silenzioso. Sono anni di elogi silenziosi ma attivi. E farlo parlare non è stato semplice.

«Cos’è la libertà in bici? Non è altro che l’avventura di costruirsi ogni giorno un nuovo tragitto. Si è esposti all’ambiente e al clima, lo stesso percorso al lavoro lo si vive ogni volta in maniera diversa. Non è così con la macchina». Indica la lunga fila di auto ferma al semaforo e prosegue «dopo le 15 miglia orari la velocità è inefficiente perché costa troppo», poi aggiunge: «Ivan Illich». Negli anni ’70 il filosofo austriaco, critico acuto e radicale della civiltà industriale aveva compreso quanto certe monopolizzazioni avrebbero sempre più preso le nostre vite «bloccando il movimento alimentato dall’energia corporea».

«Non sono il solo a essere car-free, ho vari amici che hanno rinnegato la macchina. Essere ciclista per me vuol dire avere autonomia in un mondo dove le vie ti portano dove vogliono loro e non dove vuoi arrivare tu. Quando giro in bici m’inoltro in sentieri lungo il fiume e vedo panorami che gli autisti non vedranno mai». Nessuna ambizione di viaggi esotici. Basta esplorare il mondo intorno. Fermarsi a chiacchierare con altri per strada. Scoprire l’altro da sé ma in bici.

«Ognuno vive la due ruote come vuole e secondo la propria indole. Io non ho mai fretta. Si parte, e dove si arriva, si arriva. L’importante è trovare la via di casa la sera».

«Quella comunità [..] sostituita da una nuova placenta composta di tubi», scriveva Ivan Illich, non è vero che sparisce, può ancora ritrovare la via di casa. Come il professore, di nuovo in sella, ci ha raccontato.

 

 

[Dario Del Puppo, origine venete, insegna lingua e letteratura negli Usa. Nei suoi corsi si viaggia tra Mark Twain e la crisi petrolifera, tra passato e futuro. E si parla (tanto) di bici.]