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La confessione

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Accade a volte che il Creatore ci conceda di dividere così intensamente la nostra esistenza con alcune persone al punto che, percorrendo insieme la strade delle vite ci si sente come fratelli. Era stato così per me e Callisto, cresciuti insieme fra i poveri palazzi di quelle periferie un tempo così inconsuete, perduti e, volutamente, ritrovati a causa di quei forti sentimenti che a volte possono legare uomini di grandi diversità. Fu una cosa naturale trovarmi vicino a lui anche nel momento del suo trapasso. Dall’età di dodici anni fino a pochi giorni prima della morte ebbe un’unica maniera di procurarsi da vivere: era meccanico di biciclette e, cosa piuttosto rara ai nostri giorni, ne era serenamente soddisfatto. Credevo che non avesse segreti per me così come io non ne avevo per lui, ma in quel nostro ultimo colloquio mi rivelò un aspetto nascosto ed inquietante della sua esistenza.

Se ho voluto renderlo pubblico non è certo per violare il segreto sacramentale, visto che Callisto, figlio di anarchici, non fu nemmeno battezzato e, giunto all’età della ragione non vi fu verso di farlo entrare nel gregge di Dio; dentro di me ho la certezza che a lui sarebbe piaciuto far conoscere la sua storia a molte persone.

«Ciao Felice, finalmente!»

«Ciao Callisto, ci sei riuscito a star male sul serio!»

«Si’, quando faccio le cose, le faccio bene, io!»

«Dai, non scherzare…»

«Fra un po’ morirò, sono sicuro, e voglio raccontarti una cosa che non sa nessuno e non perché sei un prete, ma perché sei un amico e poi voglio proprio levarmi questo peso e chissà, forse mi divertirò a vedere la faccia che farai!»

«Sono qui per ascoltarti»

«Come sai ho sempre vissuto tranquillamente del mio lavoro fino al momento del boom dei motori, alla metà degli anni Sessanta. Prima di allora quasi tutti andavano in bicicletta, l’automobile era una cosa da signori, e quando le bici si rompevano venivano da me, dal meccanico, anche per le piccole cose: gomme bucate, cavetti dei fanali da cambiare, freni da registrare. Il lavoro non mi mancava quindi, e mi piaceva e tutto andava per il meglio. Ma poi, ti ricordi?, la gente ha cominciato ad avere la Lambretta e poi la “600” e a me non sono mai piaciuti i motori… Ed a un certo punto solo i bambini, ma solo prima di farsi regalare il motorino, e alcuni vecchi continuavano ad andare in bicicletta. E tu mi capirai: con tutti i figli che mi erano nati non era sufficiente per vivere.»

«E come hai fatto? Tu non hai mai avuto un altro lavoro…»

«Appunto, dovevo trovare il modo di aumentare il numero di biciclette da riparare e questo, se ci pensi, lo si può fare semplicemente sabotando altre biciclette! Così, ho incominciato danneggiando biciclette che i clienti mi portavano in officina. Naturalmente cercando di non destare sospetti: mi portavano una bici con i freni non a posto e io, oltre a riparare i freni, danneggiavo il fanalino in modo tale che da lì a qualche giorno il proprietario sarebbe dovuto tornare e così via.»

«Ma è una cosa diabolica!»

«E questo non è niente! Dopo un po’ di tempo sono stato costretto ad aumentate il numero dei miei clienti, ed allora andavo in giro per le strade del quartiere a sabotate le bici in sosta. Sapevo poi che la maggior parte delle persone sarebbe venuta da me a farsele riparare: ho sempre tenuto i prezzi un po’ più bassi della concorrenza! Ma non credere che sia stata una cosa facile per me: ogni volta mi si spezzava il cuore per quello che facevo, sai quanto ho amato le bici ed i ciclisti, ma ero costretto a farlo: o lavoravo o non mangiavo ne’ io ne’ la mia famiglia. E poi tutto questo mi teneva occupato 12-14 ore al giorno.»

«E mai nessuno se ne è accorto?»

«Ero diventato così abile che riuscivo persino a bucare le gomme delle bici parcheggiate, con la puntina da disegno incollata alla scarpa, senza che le persone che camminavano insieme a me se ne accorgessero: bastava un rapido e deciso movimento del piede, una parola detta ad alta voce per coprire il sibilo dell’aria che usciva… Certo poi la gente vedeva che le bici erano danneggiate da qualcuno ma sai, pensavano e dicevano che fossero dei ragazzi, monelli venuti da altri quartieri…»

«E invece era un monello con moglie, figli e qualche capello bianco! Belle cose mi racconti! Adesso che ci penso anche la mia bici si rompeva un po’ troppo spesso! Sei stato una vera canaglia, ma non riesco ad essere arrabbiato con te: l’hai fatto a fin di bene.»

«E non ti ho ancora detto la parte più divertente!»

«Che diavolo hai fatto ancora?»

«Sai, arrivato ad una certa età, i miei figli hanno cominciato a lavorare, e poi a sposarsi, insomma era venuto anche per me il momento di riposarmi. Non che avessi una pensione che si potesse chiamare tale, ma, tutto sommato, quando si è vecchi non si hanno troppe esigenze e mi bastava fare un lavoretto ogni tanto, ed i clienti affezionati non mi mancavano. Così dovevo pur fare qualcosa per riempire la giornata…»

«Si può sapere insomma… ? »

«Possibile che non riesci ad immaginarlo? Io, innamorato delle bici, ero stato costretto per buona parte della mia vita a rovinarle, a rendere la vita difficile ai miei amici ciclisti, e tutto per colpa delle auto e per colpa di tutta quella gente che le comprava anche per sentirsi meno povera. Gente che si lamentava, che diceva di non avere soldi abbastanza, che non vedeva che l’auto costa più di un figlio, e la benzina più del vino! E le città in pochi anni sono cambiate, l’aria è malata, il rumore dei motori copre ogni suono e le piazze sono diventate parcheggi. Tu sei un prete e quindi non potrai accettare il sentimento che mi dominava: vendetta. Io dovevo vendicarmi. E tutta la mia esperienza di sabotatore l’ho messa al servizio di questa vendetta: carrozzerie metallizzate sfregiate per sempre, gomme tagliate, semafori danneggiati per causare ingorghi di traffico, zucchero nei serbatoi e tutto ciò che mi veniva in mente. E sapessi il piacere di vederli arrabbiati, litigare l’uno con l’altro per arrivare prima, disperarsi perchè la loro auto, il loro feticcio era rovinato, e sorprenderli a gioire se capitava al loro vicino di parcheggio e non a loro trovarsi una gomma tagliata. Mi sentivo rinascere! Giustizia era fatta!»

«Non dovevi farlo, questo è grave, molto grave. Non dovevi. Io so che la tua anima è buona e puoi salvarti, perché non sei pentito? »

«Mi conosci, non ho mai rimpianto quello che ho fatto e sai io non ci credo all’inferno e al paradiso. Che cos’è l’inferno se non lavorare come facevo io sul marciapiede davanti alla mia officina quando si è vecchi e le mani fanno sempre più fatica a stringere chiavi e bulloni, e le auto che passano sulla strada ti consumano udito e cervello e quello che respiri ti fa tossire e inveire contro colui che ha inventato i motori. E il paradiso, per paradiso sai cosa mi basterebbe? Un corpo giovane, una primavera eterna, una bicicletta e una strada di campagna, un’ombra d’albero e gente intorno a me che ha voglia di fermarsi, di parlare, di cantare; e poi ripartire su una strada sempre in discesa e gridare ancora, felici, stonati, quella nostra vecchia canzone, ti ricordi?

Noi andrem in cielo…

in bicicletta

perchè in cielo

non si va di fretta…»