Laurent Fignon, il Professore. Lo chiamavano così per quegli occhiali da vista che gli davano un’aria da intellettuale e perché, a differenza di quasi tutti gli altri qualche libro l’aveva letto. Parigino, un’anomalia in una Francia ciclistica votata alla provincia, Fignon correva e vinceva perché gli piaceva prima di tutto la bicicletta, la corsa, le gare all’attacco. Eravamo giovani e incoscienti, (296 pagine, 21 euro) la sua autobiografia scritta con Jean-Emmanuel Ducoin scrittore ed editorialista del quotidiano L’Humanité, appena uscita in Italia da Pagine Al Vento la nuova collana di Mulatero Editore, tradotta e curata da Gino Cervi.
Laurent Fignon, una vita all’attacco
Scrive Fignon: “Il ciclismo vive oggi la malattia che affligge lo sport in generale. La posta è molto più alta che ai miei tempi e, quando dico posta, mi riferisco, naturalmente, ai soldi. I media hanno peso e potere e gli sponsor sono molto più importanti di prima. Un aspetto alimenta l’interesse dell’altro. Bisogna dire la verità. Ai nostri giorni, quando un corridore fa una bella prestazione al Tour, sembra che abbia inventato un nuovo sport! Che sciocchezza!
ll ciclismo, infatti, si è trasformato in uno sport di difesa, dimenticando la sua ragion d’essere essenziale: andare all’attacco. È l’essenza del ciclismo, il suo spirito, la sua anima. Non si può solo aspettare e sperare che l’avversario ceda, perché questa è una mentalità meschina, non da campione”.
Una lucidità tutta “d’attacco”, con cui fotografa la sua epoca di corridore e, senza fare sconti, ne evidenzia le caratteristiche più autentiche e ne denuncia le magagne. Dal doping generalizzato, agli accordi sottobanco, alle grandi corse a tappe costruite ad uso e consumo di un vincitore annunciato. Con passione e senza false nostalgie da reduci.